Presentazione del libro "Teologia e poesia" di don Giuseppe Villa
Treviglio 10 giugno 2017
“Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech”.
Quarant’anni di ministero sacerdotale sono molti, e Lei don Giuseppe sarà sacerdote in eterno proprio come recita il Salmo 109. Duplice è il motivo di riconoscenza per questa Sua importante festa: il primo al Signore che chiama, il secondo per la Chiesa madre che asseconda. Il Salmo 109 esprime nel suo cuore testuale il concetto teologico del sacerdozio: lo stesso versetto è ripreso anche dal rituale dell’ordinazione dei presbiteri, durante il rito della vestizione con gli abiti sacerdotali. Il nome di questo sacerdote – Melchisedech – possiede un prezioso significato, proprio come esplicitato nei primi versetti del capitolo 7 della lettera agli Ebrei: «1Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; 2a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa “re di giustizia”; poi è anche re di Salem, cioè “re di pace”». Il richiamare quel “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek” è un voler confermare un aspetto tipico dell’investitura sacerdotale, proprio in quanto re di giustizia e re di pace.
Introduzione.
In occasione del suo 40° anno di ordinazione sacerdotale don Giuseppe Villa ha pubblicato il libro Teologia e poesia, che oggi viene presentato. Quando ha iniziato a parlarmi di questo progetto, il mio pensiero è andato agli anni vissuti a Roma da studente universitario: poiché i nomi degli autorevoli contributi che arricchiscono il volume, non sono per me soltanto semplici nomi. Alcuni sono stati miei professori; altri miei conoscenti, come il teologo napoletano Bruno Forte; mentre altri autori di testi su cui ho studiato.
1. Teologia e poesia.
Teologia e poesia è certamente un binomio imprescindibile nella storia del pensiero della teologia e della filosofia, nonché in modo del tutto particolare della nostra cultura italiana. Tale legame, presente sia nel pensiero occidentale, contesto da noi maggiormente conosciuto e studiato, sia in quello orientale, che ritengo troppo poco conosciuto e diffuso nonostante la grande e profonda ricchezza culturale. Don Giuseppe concentra il suo saggio introduttivo a questa raccolta di poesia partendo dal dopo Heidegger, alla luce di un nuovo concetto di teologia declinato attraverso il valore dell’estetica. Don Giuseppe percorre questa strada a partire dalla teologia fondamentale, fino poi ad approdare alla dogmatica, alla liturgia, alla sacra scrittura, all’ecclesiologia. Quindi il valido tentativo di don Giuseppe è certamente quello di ripercorrere una storia della teologia intesa come parola su Dio alla luce del valore poetico, così da arrivare a definire l’espressione di teologia poetante. Come tutti gli eccessi, anche assolutizzare il valore estetico comporterebbe dei pericoli: ecco perché l’autore ha preferito parlare di teologia poetante al posto di teologia poeticante.
Parlare quindi di una teologia poetante, dove emerge tutto l’aspetto estetico della teologia, trova la sua alta collocazione nel pensiero teologico post-moderno: una vera necessità di riscoprire il gusto del bello e le espressioni dell’estetica che hanno da sempre caratterizzato la storia del pensiero teologico. Si vive oggi in un’epoca che ha messo da parte i trascendentali classici, indirizzando la rotta verso nuovi modelli diversi dall’ens, dall’unum, dal verum, dal bonume soprattutto dal pulchrum. La passione di don Giuseppe di proporre una nuova pista di riflessione teologica dell’estetica a partire dalla teologia fondamentale è un’impresa ardua nel nostro tempo, tuttavia necessaria e di grande importanza.
Il suo libro si intitola “Teologia e poesia”: sinteticamente, cosa intende in generale per teologia e poesia ed in particolare per teologia poetante?
2. Le quattro “esse” della parola.
Il saggio iniziale con cui l’opera si apre affronta in primis il valore della parola teologia nella sua dimensione diacronica.
Sicuramente la parola ha quattro ruoli fondamentali nella comunicazione, potremmo dire che la parola possiede la regola delle quattro “esse”: la parola è segno, è simbolo, è significato ed è significante.
- La parola è segno perché è sensibile: scritta in modo univoco con caratteri di segni convenzionali è percepibile ai sensi del vedere e dell’ascoltare. Una parola “importante” non può essere sentita, deve essere ascoltata! Il verbo sentire ha un significato differente dal verbo ascoltare.
- Il verbo “sentire” indica provare una sensazione fisica provocata da stimoli interni o esterni: è pertanto frutto di un rumore accidentale.
- Il verbo “ascoltare” esprime l’azione di udire attentamente qualcuno; prestare attenzione a qualcosa in quanto oggetto o motivo di informazione, di riflessione, di svago.La parola va quindi ascoltata poiché è l’elemento naturale che determina l’essere sociale proprio dell’uomo che lo distingue dagli altri esseri viventi. La parola sta alla base di ogni comunicazione. Don Giuseppe ha dedicato diverse pagine alla questione della parola nel contesto della comunicazione, soffermandosi con particolare rilievo anche ai mezzi più moderni di comunicazione: internet, social network, blog...
- La parola è simbolo: perché è corrispondente a contenuti o a valori particolari e universali. Ciascuna parola, scritta con dei segni ben precisi, esprime il simbolo unico e riconoscibile di un determinato significato. Su questo stesso tema si rilevano notevoli contributi a partire da Hobbes fino alla logica simbolica dei neopositivisti e alla semiotica.
- La parola è significato: ciascun termine possiede un suo significato specifico, anche quando i vocaboli sono apparentemente espressi con segni uguali. L’uso della quantità degli accenti esprime in modo inequivocabile un significato univoco. In tal caso si dirà che le due parole in questione sono omografe, scritte nello stesso modo, non omofone, che non hanno suono uguale. Tanto che, per esempio, sebbene le parole bótte e bòtte oppure ancóra e àncora si scrivano allo stesso modo con gli stessi segni grafici, la pronuncia e quindi il simbolo differiscono attribuendo a ciascuna parola il proprio significato.
- La parola è significante: ricca di significato perché è formata da molteplici tesori. Mons. Renato De Zan pubblicava qualche anno fa un’introduzione al Lezionario e alla lettura liturgica della Bibbia, intitolandolo «I molteplici tesori dell’unica parola». Il titolo prende spunto dall’incipit del n. 3 dell’“Ordinamento delle letture della messa” pubblicato nel 1981, in cui si espone il significato liturgico della Parola di Dio. È proprio attraverso questi molteplici tesori cui è possibile percepire questa ricchezza inesauribile della parola intesa come significante. Come afferma don Giuseppe nel suo libro il termine teologia è composto dall’unione dei termini teo e logia, un aspetto non trascurabile se vogliamo comprendere a fondo la ricchezza inesauribile dei molteplici tesori dell’unica parola – Dei verbum – la parola di Dio. Una parola adatta ad ogni uomo di ogni cultura e di ogni tempo.
Lei afferma che la parola interna alla teologia ha un ruolo primario, tanto che il suo stesso nome, teo-logia, la contiene, logia-parola. Lei cita Stefan George per applicare un suo detto alla teologia: “Nessuna cosa v’è dove la parola manca”. Può essere applicato così: “Nessuna teologia v’è dove la parola manca”. In che senso allora la parola è interna alla teologia?
3. La parola come potenza ed energia.
Nel corso del secolo scorso, e precisamente nel 1959, P. Ricoeur scriveva un breve saggio dal titolo “Il simbolo dà a pensare”, un vero capolavoro, sebbene di piccole dimenisioni. Dire che il simbolo dà a pensare è una constatazione molto concreta. Se guardo la bandiera italiana, non posso non pensare alla sua storia, alla sua cultura, alle sua letteratura, ai suoi problemi, e così via. Vedendo il simbolo del mio paese, la bandiera tricolore, mi dà a pensare tutto ciò che è inerente ad essa. Tutta la nostra vita è fondata sui simboli. La parola ha valore di simbolo: dà a pensare perché evoca ed invoca qualcosa di forte.
La parola è quindi anche dunamij ed eνeργεια. È potenza ed energia, perché invoca ed evoca. Permette reciproca relazione. Nasce così il linguaggio, frutto di qualla dunamij, ossia, la potenza che permette il transitare dall’uno all’altro termine, concedendo così loro di in-tendersi e di acquisire un significato chiaro e comprensibile. La parola è anche eνeργεια, ossia forza, una forza penetrante come afferma la lettera agli Ebrei: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore».
Il linguaggio fatto di parole che il credente esprime attraverso le diverse forme estetiche che fanno parte del suo estro creativo: l’arte, la letteratura, la liturgia… Tanto da affermare che senza rito non può esistere fede vale a dire che senza la ricchezza della parola non può esistere la ricchezza della fede. Pertanto il linguaggio della fede è arricchito da quei molteplici tesori dell’unica parola, di cui abbiamo già detto prima in riferimento alla parola di Dio.
Nella dedica alla Memoria del Card. C.M: Martini, lei cita le parole dell’epigrafe: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”. La memoria di Martini si nota anche nelle tante pagine riservate alla parola e al linguaggio, tuttavia non è solo quella memoria.
4. Cultura e memoria.
Cipriano Vagaggini scrisse nella sua opera Il senso teologico della liturgia a proposito della relazione tra il senso estetico e la liturgia che: «il sentimento e l’attività estetica siano fortemente utilizzati nella liturgia è innegabile. Architettura, pittura, scultura, musica, coreografia: tutto è abbondantemente impiegato nella liturgia. Alcune restrizioni storiche in questo campo si spiegano dalle circostanze storiche del momento, in specie dalla contemporaneità del culto pagano in cui tali mezzi erano abbondanti. La Chiesa si preoccupò di inculcare anzitutto anche psicologicamente ai suoi fedeli l’essenziale differenza tra il culto pagano e quello cristiano. Passato il pericolo, la liturgia seguì e segue su larga scala la sua china congenita». Sebbene Vagaggini si riferisse a un preciso periodo storico piuttosto antico, il metodo di cui ci fa dono può essere utilizzato tutt’oggi per far riscoprire il valore estetico sostituito nella nostra società, avendo dimenticato l’importanza fondamentale dei trascendentali. Il volume di don Giuseppe si preoccupa di far riemergere l’importanza di questo valore estetico assopito nella società post-moderna.
Le diverse forme estetiche appartenenti a una cultura prettamente cristiana che si sono alternate nel corso del tempo hanno scandito l’evoluzione antropologica dell’uomo religioso attraverso particolari espressioni letterarie che hanno dettato le basi della nostra cultura europea, che come ci ricorda don Giuseppe nel corso del terzo capitolo fonda le sue radici in un ambiente culturale di origini ebraico-cristiane: San Benedetto (V secolo); San Francesco d’Assisi (XII secolo); Dante; Manzoni; Leopardi fino a Umberto Eco. Allo stesso modo anche l’arte ha un ruolo importante attraverso le espressioni artistiche dalla Biblia Pauperum, Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Bernini e tutti gli altri artisti che hanno arricchito la nostra eredità culturale.
Fare memoria del nostro passato è importante per conoscere meglio chi siamo. L’esercizio di cui abbiamo bisogno è certamente quello di studiare e conoscere chi eravamo attraverso le forme del linguaggio letterario o artistico che la memoria del passato ci ha lasciato in eredità. Certamente la letteratura, e in particolare la poesia, giocano un ruolo fondamentale nell’aiutarci a fare memoria. Testimone di ciò è certamente Primo Levi che attraverso la forma del romanzo Se questo è un uomo aiuta le generazioni di oggi a fare memoria di un passato crudele e vicino.
Nel suo testo afferma che la poesia è una forma della memoria, che sta in equilibrio tra il passato e il presente, grazie al linguaggio, che è sì scritto, ma con l’intento di essere declamato oralmente. Ci aiuta a capire quali effetti produca allora la poesia recitata.
5. Conclusione: il linguaggio della teologia poetante.
Alle nostre spalle abbiamo il mosaico di Trento Longaretti La pesca miracolosa e il mandato a Pietro, che proprio qualche mattina fa, precisamente il 7 giugno si spegneva all’Hospice di Bergamo; questa mattina alle ore 10 sono stati celebrati i funerali nel Duomo di Bergamo in Città Alta. A tal proposito mi sembra opportuno richiamare quest’opera artistica che le ha ispirato uno dei brani poetici: Pietro. Icona emblematica e soprattutto affascinante per ogni cristiano; inoltre di una ricchezza poetica che risale alle origini del primo secolo, cito un verso della sua poesia: “Casa tanto antica, con dodici porte, aperte giorno e notte perché ciascuno vi passi. Vi transita il Signore per accogliere tutti: i piccoli e i poveri e gli ultimi peccatori”.
Come questo brano poetico, così tutto il percorso che descrive nel saggio e ha praticato nella raccolta di poesie ha un inizio e una fine, un prologo e un epilogo. La prima poesia che abbiamo sentito all’inizio è la storia di un lettore. La parabola del Padre buono raccontata da Gesù l’ha condotto nella casa del Padre, dove ha imparato a fare silenzio e a dire, a dare voce a ciò che accade in quella casa. Com’è allora l’epilogo?