NELLA SPERANZA SIAMO STATI SALVATI
“Nella speranza siamo stati salvati”. Così da inizio Benedetto XVI alla sua seconda enciclica, e la scrive proprio in un tempo in cui l’uomo post-moderno sembra aver smarrito un’importante valore quale sembra proprio essere la “speranza”.
Oggi l’uomo davanti a tante difficoltà, sofferenze, dolori, problemi, ingiustizie, calamità naturali, disastri ecologici sembra di non essere più capace di mettersi in una posizione di attesa, come si dovrebbe fare durante questo tempo di avvento nel quale ci troviamo per farci aiutare a riscoprire la “speranza” smarrita.
Nell’enciclica, il successore di Pietro, propone una bella riflessione sulla vera fisionomia della speranza cristiana, questa riflessione si snoda tra i punti 24 e 31. Qui il Santo Padre mette al centro della sua riflessione il tema della libertà, infatti cade proprio a fagiolo in questo tempo di avvento una frase del numero 24, dove afferma: “La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenza e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano, esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa”. Ciò ci permette di capire che l’uomo deve nella sua piena libertà di figlio di Dio essere responsabile di salvaguardare la sua vita e la vita futura, e quale punto di partenza migliore è per l’uomo se non proprio il rispetto per l’ambiente. Partire proprio dal rispetto per l’ambiente ci permetterà di comprendere come può essere importante la speranza nel nostro campo di lavoro. Riferendoci ancora a Benedetto XVI egli dice al numero 27: “La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (Cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe «vita»”.
Abbiamo adesso due ingredienti per prepararci meglio al natale, e sono la libertà e l’amore, devono essere loro ad aiutarci a riscoprire la speranza che noi cristiani conosciamo, perché come all’inizio dell’enciclica spiega il Papa, la speranza può essere capita solo da chi ha fatto esperienza di Dio. Ma adesso potremmo chiederci come è possibile fare questa esperienza di Dio che ci permette di conoscere la speranza? Ad aiutarci chiamiamo in causa il grande filosofo stoico latino Lucio Anneo Seneca, il quale nella lettera 41 indirizzata a Lucilio scriveva: “E’ così come ti dico, o Lucilio: in noi c’è uno spirito divino che osserva e controlla il male e il bene delle nostre azioni; questi (lo spirito) ci tratta così, com’è stato trattato da noi. In verità un uomo buono non è nessuno senza Dio: forse che qualcuno potrebbe innalzarsi al di sopra della sorte se non fosse aiutato da lui?
I progetti che ci dà sono splendidi ed eroici. In ciascuno degli uomini buoni abita un Dio (chi sia questo Dio è incerto, ma c’è).
Se si presenterà al tuo sguardo un luogo con alberi antichi che superano la solita altezza e che il moltiplicarsi e l’intricarsi dei rami sottraggono la vista del cielo, l’altezza di quel bosco, il mistero del luogo, lo stupore per l’ombra così fitta e continua, pur in un luogo aperto, ti daranno la fiducia dell’esistenza di un nume. Se una grotta, creata non da mani d’uomo, ma scavata in tanta ampiezza da fenomeni naturali, sostiene su rocce profondamente corrose un monte, essa colpirà il tuo animo con un sentimento di religioso timore. Veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l’improvviso scaturire dal sottosuolo di un vasto fiume ha propri altari; onorano le fonti delle acque calde, e consacrano le acque stagnanti o per l’oscurità o per l’immensa profondità”.
In questo brano emerge la certezza evidente di un contatto di Seneca con San Paolo, qui il nostro autore romano sembra indicare al suo destinatario un messaggio di “speranza”, ossia la possibilità che negli uomini buoni dimori un Dio, un Dio per lui ignoto, ancora non conosciuto, ma del quale Seneca ha certamente fatto esperienza, infatti scriveva: “chi sia questo Dio è incerto, ma c’è”. È proprio questa certezza dell’esistenza di Dio che porta Seneca a trasmettere una gioiosa speranza al suo Lucilio, e a dettargli un metodo, come dicevamo prima, per fare esperienza di questo Dio. Che bello il metodo proposto da Seneca per fare esperienza di Dio, egli lo realizza proprio nella natura: in un bosco, in una grotta naturale e nelle sorgenti dei grandi fiumi.
Ancora oggi, a distanza di circa 2000 anni noi possiamo fare lo stesso tipo di esperienza descritta da Seneca in posti di incantevole bellezza naturale che per “volere divino” ancora possediamo. Però il “volere umano” che non conosce la speranza, che non ha fatto esperienza di Dio, e usando un termine di Seneca diciamo “cattivo”, sta mettendo a repentaglio questa possibilità per noi importante, e lo fa distruggendo la natura, violentandola, sfruttandola. Qui entra in gioco la nostra responsabilità di cristiani che hanno fatto l’esperienza di Dio, che conoscono cosa vuol dire speranza, nel lavorare quotidianamente per raggiungere lo scopo di difendere un patrimonio dell’umanità quale l’ambiente. Questa responsabilità come abbiamo visto non solo ci è proposta dal Papa nella sua seconda enciclica, ma da Seneca, e da tanti altri uomini cristiani e non che credono nella stessa causa: la natura integra è vitale all’uomo per metterlo in contatto con un Dio e donargli la capacità di riacquistare la speranza smarrita. Questa è la strada per la nostra salvezza, per la salvezza del mondo, della natura, delle generazioni future.