LA RELIGIONE ENTRO I LIMITI DELLA SEMPLICE RAGIONE
Analisi del CAPITOLO IV - Parte seconda
INTRODUZIONE
Questa seconda parte del quarto capitolo del saggio di Kant si divide in quattro paragrafi e conclude l'opera con l’ultima annotazione generale.
Struttura:
PARTE SECONDA. Il falso culto di Dio in una religione statutaria.
§1. Il fondamento soggettivo universale dell’illusione religiosa.
§2. Il principio morale della religione opposto all’illusione religiosa.
§3. Il clericalismo come regime fondato sul falso culto del principio buono.
§4. Il filo conduttore della coscienza morale nelle cose di fede
ANNOTAZIONE GENERALE: I mezzi della grazia.
1.1. “IL FALSO CULTO DI DIO IN UNA RELIGIONE STATUTARIA”
Per Kant elevare la fede a «condizione suprema del compiacimento di Dio nell’uomo, è un’illusione 1 religiosa». Da questa illusione procede il falso culto.
Già in queste righe possiamo comprendere che Kant mette in risalto che l’illusione di una religione porta a praticare un falso culto.
1.2 “IL FONDAMENTO SOGGETTIVO UNIVERSALE DELL‘ILLUSIONE RELIGIOSA”
Kant in questo paragrafo parla dell’antropomorfismo, e dice che nella sfera teoretica è allo stesso tempo inevitabile ed offensivo.
Secondo il filosofo tedesco è molto pericoloso, per la nostra morale, quando entrano in gioco i rapporti pratici con la volontà divina. Infatti per l’antropomorfismo potrebbe accadere che ci facciamo un Dio a nostra immagine.
Questo culto che l’uomo crede di rendere a Dio non comporta necessariamente sacrifici. Perché è un culto che l’uomo si crea da sé, e quindi potrebbe mai un uomo imporsi dei sacrifici come fine utile della propria fede?
Tuttavia i sacrifici intesi come espiazione, mortificazioni, pellegrinaggi, e così via sono considerati molto più potenti, efficaci e idonei per ottenere il favore del cielo e la remissione dei peccati, perché testimoniano con forza la sottomissione infinita alla volontà di Dio.
Questo comportamento è una semplice illusione religiosa, ma che comunque non è mai una mera illusione involontaria, piuttosto una massima che attribuisce al mezzo quel valore in sé che spetta invece al fine.
Di conseguenza, l’illusione religiosa è sempre assurda e riprovevole, in quanto è un’occulta inclinazione dell’inganno.
1.3 “IL PRINCIPIO MORALE DELLA RELIGIONE OPPOSTO ALL‘ILLUSIONE RELIGIOSA”
Kant inizia questo nuovo paragrafo con un principio fondamentale: «Tutto ciò che, al di fuori di una buona condotta, l’uomo ritiene di poter fare per diventare gradito a Dio, è semplice illusione religiosa e falso culto di Dio».
Egli in due righe risponde a una domanda fondamentale e che in molti non riescono a trovare una esatta risposta: Come comportarsi per giungere alla salvezza eterna? Solo e soltanto mettendo in pratica la buona condotta.
Se questa fede porta all'uomo a fare qualcosa di contrario rispetto alla sua coscienza, allora l'uomo dichiara una verità di cui non è persuaso.
L'imperfezione della giustizia umana 2 non ci lascia del tutto senza consolazione.
La prima e propria problematica che Kant si pone è: «L'uomo può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema?».
Dinanzi a questa problematica Kant risponde: «No. La ragione non può determinare la modalità di questo soccorso e conoscere i caratteri; noi razionalmente non potremmo cogliere in sé né esprimere in concetti il rapporto tra Dio e l'uomo».
In seguito non appena l'uomo si distanzia dal principio sopra espresso, il falso culto di Dio “la superstizione” non conosce più limiti. Oltre a questo principio tutto ciò che non contraddice direttamente la moralità è arbitrario.
L'uomo offre a Dio ogni cosa: il sacrificio delle labbra 3, i beni terreni, fino al sacrificio della propria persona abbandonando il mondo (per esempio l'eremita). E se l'uomo offre a Dio il cuore, allora intende esprimere un desiderio profondo, inteso come suo sacrificio affinché gli venga accettato e computato nel giudizio finale (Est ardelionum quaedam Romae natio, Trepide concursans, occupata in otio Gratis anhelans, multa agendo nihil agens. C'è a Roma una stirpe di faccendieri sempre in corsa, trepidante, occupatissima a stare in ozio, che ansima per un nulla, che si da un gran da fare senza fare nulla. Fedro, Fabulae).
In realtà si tratta di agire o manifestando fenoumenicamente la vitalità della propria intenzione morale, oppure trastullandosi con giochi devoti col dolce far niente 4.
La seconda e vera problematica che tratta Kant, si sposta adesso dal completamento dell’impotenza umana all’illusione delle virtù; infatti si chiede: «ma non esiste forse anche un’illusione della virtù che presume di elevarsi vertiginosamente al di sopra dei limiti delle facoltà umane, e che potrebbe benissimo essere collocata, insieme alla seducente illusione religiosa, nella classe generale delle autosuggestioni?».
Qui Kant risponde distinguendo tra l’intenzione virtuosa, la natura e la grazia.
- L’intenzione virtuosa ha a che fare con qualche cosa di reale che, di per sé gradito a Dio, è in accordo con il massimo Bene possibile nel mondo. Porre in questa idea il valore supremo non è affatto un’illusione.
- La natura è ciò che l’uomo è in grado di fare in forza del principio della virtù.
- Invece si chiama grazia ciò che serve soltanto a compensare l’insufficienza dell’intero potere morale dell’uomo; e la grazia può essere soltanto desiderata, oppure anche sperata e invocata.
Kant evidenzia che si potrebbe cadere nel fanatismo distinguendo gli effetti della grazia da quelli della natura, o addirittura di poter produrre dentro di noi degli influssi celesti, oltre che al solo fanatismo si potrebbe cadere anche nell’antropomorfismo.
Kant qui arriva ad una prima conclusione: «crediamo che ci possano essere effetti della grazia per compensare l’imperfezione dei nostri sforzi verso le virtù. Per il resto siamo impotenti a determinare quali siano i loro caratteri distintivi, e ancora meno siamo in grado di fare qualcosa per produrli noi».
Kant infine distingue due tipi di illusioni:
- L’illusione di poter influenzare con atti culturali religiosi la nostra giustificazione davanti a Dio è la superstizione religiosa. Questa viene chiamata «superstiziosa» perché fa ricorso a semplici mezzi naturali (non morali), i quali non hanno nessuna influenza su ciò che non appartiene al Bene morale.
- L’illusione di poter ottenere questo scopo aspirando a una presunta intimità con Dio, invece, è il fanatismo religioso. Questa viene chiamata «fanatica» quando neppure il mezzo escogitato, in quanto soprasensibile, è nel potere dell’uomo, per cui non si capisce che in tal modo è impossibile raggiungere il fine soprasensibile perseguito.
Kant conclude dicendo: «senza la ragione non può esserci nessuna religione perché come ogni moralità deve necessariamente fondarsi su principi razionali». E aggiunge che onde evitare qualsiasi illusione religiosa bisogna che accanto ai dogmi statutari una religione deve contenere entro sé anche un principio che ne fissi la meta vera e propria.
1.4 “IL CLERICALISMO 5 COME REGIME FONDATO SUL FALSO CULTO DEL PRINCIPIO BUONO”
La religione non iniziò con un culto servile di Dio. Questo culto divenne un culto di templi, e poi di chiese: la base comune di entrambe le forme era una fede storica. Si iniziò a considerare quest’ultima semplicemente come fede provvisoria, scorgendovi la raffigurazione simbolica e il mezzo di promozione di una fede religiosa pura. Tra i vari esempi di personalità religiose Kant ci fa capire che alcuni non mirano affatto al miglioramento morale degli uomini (lo riducono cioè alla fede in certi dogmi statutari o alla pratica di certi riti arbitrari).
Mentre altri pongono il culto divino esclusivamente nell'intenzione di tenere una buona condotta di vita. Costoro Kant li definisce come: «membri di una chiesa (invisibile), la quale abbraccia entro sé tutti gli uomini di buona volontà ed è l'unica a poter costituire la vera chiesa universale».
Quindi si sono create due classi, quella che ritiene che la potenza sia un Essere intelligente, e quella che pensa invece che quella potenza invisibile sia un Essere morale. Ciascuno di questi due atteggiamenti, dà luogo in generale a un culto di Dio. È di per sé evidente che il culto morale, cioè libero (officium liberum) è immediatamente gradito a Dio. Mentre il culto servile (officium mercenarium) non è considerato di per se stesso come gradito a Dio. Dopo questa accurata precisazione Kant ci ha fatto capire che il vero culto è solo quello morale, libero.
Si potrebbe pensare l’uomo che con mezzi soprannaturali agisca su Dio, già solo questo è per noi concettualmente assurdo.
L'uomo possiede già una buona condotta e oltre a questo cerca un soccorso soprannaturale che colmi la sua impotenza naturale; qui l'uomo deve affidarsi a qualcosa di soprannaturale che compensi la sua impotenza natura, ma tuttavia non su un prodotto umano, perché si tratta di qualcosa che l'uomo può soltanto ricevere, in cui può sperare, ma che non può produrre.
Se invece l'uomo non abbia né il potere fisico di produrre questo soccorso soprannaturale né l'attitudine morale a riceverlo, egli crede tuttavia di potersi procurare l'aiuto divino quasi per incantesimo, questo è senza dubbio un'illusione perché la ragione non è in grado di pensare nessuna legge secondo cui possa esserci una connessione tra i mezzi meramente fisici e una causa moralmente efficiente.
Kant introduce per la prima volta un collegamento con la corrente filosofica del suo tempo, in modo esplicito, affermando che: «il vero illuminismo consiste appunto nel fare tale distinzione, perché solo per questa via il culto di Dio diventa un culto libero, quindi un culto morale».
Il clericalismo è dunque la forma costituzionale di una chiesa governata da un culto feticistico (o primitivo), il quale feticismo si riscontra ogni volta che la base fondamentale e il carattere essenziale del culto vengono posti in articoli di fede e in pratiche pie.
Quando dunque questo principio impone un culto servile sotto forma di docile sottomissione a un dogma, e non prescrive invece quel libero omaggio che dev'essere reso prima di tutto alla legge morale: è sufficiente che siano dichiarate incondizionatamente necessarie perché si abbia comunque una fede feticistica, la quale governa la massa e la spoglia della sua libertà morale assoggettandola a una chiesa (non alla religione).
L’ordinamento di questa chiesa (la gerarchia) può essere monarchico, aristocratico o democratico: esso riguarda soltanto l'organizzazione; ma, sotto tutte queste forme, la sua costituzione è, e resta sempre dispotica (tirannica).
Qui Kant ci parla della figura del clero, il quale tramite gli statuti di fede annoverati tra le leggi costituzionali, domina e rivendica l’autorità ed essendo in possesso di questo tale potere il clero può solo comandare e non convincere. Chi invece si trova al di fuori dei membri del clero sono laici. Infine, dice Kant, che la chiesa domina anche lo Stato, non con la forza, ma influenzando gli animi, e conclude con questa affermazione: «una disciplina ecclesiastica abitua il pensiero stesso del popolo».
* * *
In questa seconda parte del paragrafo Kant tratterà del popolo fedele, infatti inizia proprio affermando che il genere umano dev'essere capace di “intendere” questa fede. Lui ritiene opportuno che persino gli ignoranti possano apprendere questo insegnamento e questa convinzione interiore, o per meglio dire conversione.
In realtà, la fede si basa su un racconto nel quale vi è una verità di episodi, una promessa. Ma considerando che una fede basata su questi elementi è soggetta a tante obiezioni (sollevate anche sinceramente), sia la condizione suprema di una fede beatificante unica e universale.
Ma Kant fa riferimento anche a un altro tipo di conoscenza, cioè quella pratica che, sebbene basata esclusivamente sulla ragione e non bisognosa di nessuna dottrina storica, è conoscibile a tutti, anche a uomini semplici, egli la definirebbe: «conoscenza scritta letteralmente nel cuore di ogni uomo.” Si tratta di una legge che tutti ne riconoscono la sua autorità solo dal nome, e che per la coscienza di ognuno è la legge della moralità».
Questa conoscenza o ci conduce direttamente alla fede in Dio, o almeno, determina il concetto di Dio come Legislatore morale. Un punto importante che Kant evidenzia è che questa legge morale, guida in modo così naturale che risulterà possibile a ogni uomo di rispondere alle domane sulla fede, senza che prima nessuno gli abbia mai insegnato nulla a riguardo. Kant afferma che chi possiede una fede morale può accogliere anche la fede storica, ma solo se è libera, solo in questo modo la fede storica acquista un valore morale puro, poiché non è imposta con minacce altrimenti non potrebbe essere sincera. Ora a Kant sorge una domanda: «Il contenuto religioso, dev'essere costituito dalla dottrina della pietà, o anche, dalla dottrina pura della virtù?».
Kant divide la pietà religiosa in due parti dell'intenzione morale in rapporto a Dio, essa è:
- Timore di Dio quando si obbedisce ai comandi divini per dovere imposto, cioè per rispetto della legge;
- Amore di Dio quando si obbedisce per libera scelta e per il compiacimento verso la legge.
In entrambi i casi la pietà implica il concetto di un Essere soprasensibile. Ma nel concepire la natura di questo Essere si potrebbero oltrepassare i limiti del nostro rapporto morale con la sua idea, e quindi c'è sempre il rischio di cadere nell’antropomorfismo, e di conseguenza di pregiudicare i nostri principi morali.
Dopo aver chiarito questi punti sorge una nuova domanda: «Che cos'è più naturale nell’istruzione della gioventù e nelle prediche dal pulpito: esporre prima la dottrina della virtù e poi 1a dottrina della pietà, o viceversa?». Egli risponde subito dicendo che entrambe sono necessarie ma non sono identiche. Il concetto della virtù è nell'anima dell'uomo, è dentro di sé, sebbene non sviluppato; e per coglierlo non ha bisogno di ricorrere a ragionamenti sillogistici, come avviene per il concetto della religione.
Kant conclude questo paragrafo facendoci capire che «in tutto questo c'è qualcosa che eleva l'anima e la guida fino alla stessa divinità, la quale è degna d'adorazione soltanto per la sua santità e come legislatrice della virtù. E questa guida è così potente che l’uomo, anche se è ben lontano dal concedere che l’idea di Dio come Legislatore santo influisca sulle proprie massime, tuttavia s'intrattiene volentieri con essa, perché, già soltanto a pensarla si sente nobilitato. Se però si inizia da questa dottrina, il timore di non riuscire in questa espiazione, il pensiero della nostra totale impotenza a conseguire il Bene e l'angoscia di ricadere nel Male, tolgono inevitabilmente all'uomo ogni coraggio 6: egli si riduce così in un vergognoso stato di passività morale, nel quale non intraprende nulla di grande e di buono, ma si aspetta ogni cosa dal desiderio».
1.5 “IL FILO CONDUTTORE DELLA COSCIENZA MORALE NELLE COSE DI FEDE”
La questione di cui ci occuperemo ora è posta da Kant in questi termini: «In che modo la coscienza può servire da filo conduttore nelle decisioni morali più ardue?».
La coscienza morale è una consapevolezza che, per se stessa, è un dovere. «Com'è possibile allora concepire una consapevolezza che sia di per sé un dovere?». Qui Kant risponde con un principio morale che non ha bisogno di nessuna dimostrazione: «Non si deve fare una cosa se c'è il rischio che sia ingiusta». Plinio in una sua Epistola scrisse: «quod dubitas, ne feceris! - Non si deve fare, ciò che è in dubbio».
A giudicare se un'azione sia giusta o ingiusta è sempre l'intelletto, ma non è assolutamente necessario sapere di tutte le azioni possibili quali siano giuste e quali ingiuste. Ma quando io intendo compiere un'azione, allora devo non soltanto giudicare e credere che essa non sia ingiusta, ma anche esserne moralmente certo e cosciente. E questa esigenza è appunto un postulato della coscienza morale. La coscienza morale potrebbe anche essere definita come la facoltà del giudizio morale che giudica se stessa. La coscienza morale non giudica, mentre a giudicare le azioni è la ragione, per decidere se la valutazione delle azioni sia stata condotta realmente con la dovuta circospezione, per decidere se esse sono giuste o ingiuste.
Qui Kant propone un ottimo esempio: “Togliere la vita a un uomo per la sua fede religiosa è un'ingiustizia morale”, a meno che una volontà divina, rivelatasi per vie straordinarie, non abbia disposto diversamente, ma ciò non è possibile e adesso vediamo perché.
In ogni fede storica e fenomenica ci si può sempre imbattere in un errore. Quindi di conseguenza, obbedire a una fede di questo tipo significa agire senza coscienza, data la possibilità che essa ordini o permetta una cosa ingiusta, cioè un'azione che viola un dovere umano in sé moralmente certo.
Le autorità ecclesiastiche hanno il diritto, di imporre al popolo di professare questo comando come articolo di fede, pena la perdita della loro condizione di fedeli? Nel caso in questione, Kant porrebbe la soluzione in questi termini: «le autorità ecclesiastiche costringerebbero il popolo a professare, almeno interiormente, qualcosa di cui esso non ha affatto certezza morale e a considerarlo vero in nome della sua fede in Dio». In questo caso l'autorità ecclesiastica agirebbe contro la propria coscienza morale, perché imporrebbe agli altri di credere in qualcosa di cui egli stesso non ne sarebbe convinto completamente, a questo punto si sente in dovere di rivolgere questo consiglio: «sarebbe bene perciò che l’autorità ecclesiastica riflettesse a fondo su ciò che fa, perché è responsabile di tutti gli abusi che possono derivare da una fede servile».
Kant ci illumina sulla libertà di credere, infatti dice: «Se ciò che io professo come divino è vero ho colto nel segno; se invece non è vero non ha in sé niente d'illecito, ho semplicemente creduto in qualcosa di superfluo: mi sono addossato soltanto un peso che, non è un delitto».
Colui che rende falsa la sua fede viene definito “ipocrita”, a costui non importa nulla del pericolo di violare la propria coscienza morale col professare davanti a Dio stesso la fede sicura in una cosa.
Sul finire di questo paragrafo ci lascia una massima morale: «Tutto ciò che soltanto una rivelazione, e non la mia ragione, mi fa conoscere, come mezzo e condizione di salvezza, tutto ciò che soltanto una fede storica mi induce ad accettare nella mia professione di fede, ebbene tutto ciò, anche se non contraddice i principi morali puri, io non posso certo crederlo e sostenerlo come moralmente certo, sebbene non possa neppure respingerlo come sicuramente falso; tuttavia, anche se al riguardo non prendo una decisione netta, dal suo eventuale contenuto salvifico conto di ricavare dei vantaggi, a meno che nel frattempo non me ne sia reso indegno per aver agito bene, sì, ma in assenza di intenzione morale». Continua concludendo con un fine morale: «Volendo servire due padroni, ci si guasta con entrambi». Infine apre gli occhi ai dottori di una chiesa, i quali si devono porre questa domanda: «Avresti tu il coraggio di affermare, alla presenza di Colui che scruta i cuori e a costo di rinunciare a quanto hai di più prezioso e sacro, la verità di questi dogmi?». Conclude infatti affermando che dinanzi a questa domanda anche il più audace dottore della fede sarebbe colto dal panico 7.
“ANNOTAZIONE GENERALE: “I MEZZI DELLA GRAZIA”
Questo è l’ultimo parergon che Kant tratta in tutto il suo saggio, in questo parla de «i mezzi della grazia». L'uomo è in grado di fare da se stesso molte cose buone. Da queste cose va distinta la grazia, quella facoltà con cui l’uomo può fare del bene solo mediante un aiuto soprannaturale. Resta del tutto nascosto se, quando, cosa e quanto la grazia operi in noi, infatti, la ragione non può pronunciarsi su quando possa operare la grazia essendo parte del soprannaturale. Proprio per questo motivo il concetto di un intervento soprannaturale è un concetto trascendente: quindi ciò significa che nessuna esperienza può garantirci la realtà. Anche farsi un’idea, aggiunge Kant, è molto azzardato e difficilmente conciliabile con la ragione.
Poi allarga il discorso affermando che: «non è dimostrabile neppure l'impossibilità della coesistenza di natura e grazia: non possiamo sapere assolutamente nulla di un'assistenza soprannaturale la grazia opererà in noi ciò di cui la natura è incapace». Infatti noi non possiamo sapere né in che modo, oltre all'impegno costante per una buona condotta, né in quali casi sarà possibile fare affidamento su di essa.
Il concetto di un cosiddetto “mezzo della grazia” che è un concetto in sé contraddittorio funge in realtà da mezzo per produrre un'auto illusione che è tanto diffusa quanto dannosa alla vera religione. Kant divide in quattro tipi di dovere il culto divino, ma soltanto dopo averlo ricondotto al suo spirito e al suo vero significato mediante la ragione, questa suddivisione ha per fondamento l'intenzione di promuovere il Bene morale:
- Il dovere di radicare saldamente il Bene morale in noi stessi e di sollecitarne ripetutamente nel nostro animo l'intenzione, la formalità cultuale corrispondente è la preghiera privata;
- Il dovere di favorire la diffusione esterna del Bene mediante riunioni pubbliche da tenere in giorni legalmente consacrati a questo scopo, per esporvi apertamente e comunicare a tutti le dottrine e le aspirazioni religiose, con i relativi sentimenti la frequentazione della chiesa;
- Il dovere di trasmettere il Bene alla posterità accogliendo nuovi membri nella comunità religiosa e assumendosi l'onere di istruirli nella fede, nella religione cristiana, ciò corrisponde al battesimo;
- Il dovere di conservare questa comunità per mezzo della ripetizione di cerimonia pubblica, la quale renda permanente l'unione di questi membri in un corpo etico in base al principio dell'uguaglianza dei loro diritti e della partecipazione comune ai frutti del Bene morale, la comunione.
Quando l'uomo raggiunge la convinzione che tutto dipende dal Bene morale, egli continua tuttavia a cercare una scappatoia per sfuggire a questa gravosa condizione; si illude allora che, pur limitandosi soltanto a celebrare i riti, le formalità, Dio accetterà senz'altro queste pratiche al posto dell'azione morale, in tal caso si tratterebbe veramente di una grazia immensa da parte di Dio. In tutte le fedi pubbliche, l'uomo ha sempre escogitato certe usanze facendone mezzi della grazia, e nel momento in cui si oltrepassano i limiti della ragione in direzione del soprannaturale, possono sorgere tre specie di fede illusoria.
In primo luogo, la convinzione di conoscere empiricamente qualcosa, «la fede nei miracoli».
In secondo luogo, l'illusione di dover accogliere tra i nostri concetti razionali, ciò di cui la nostra stessa ragione non può però farsi nessun concetto, «la fede nei misteri».
In terzo luogo, l'illusione di poter produrre, un effetto avvolto nel mistero, l'influsso di Dio sulla nostra moralità, «la fede nei mezzi , della grazia».
- La preghiera intesa come culto divino interiore e formalistico, e considerato come mezzo per grazia, è un'illusione superstiziosa (un feticismo). Intesa così grezzamente è la semplice espressione dei nostri desideri rivolta a un Essere soprannaturale. La preghiera non è un servizio reso a Dio o un mezzo per giungere a un fine. Kant evidenzia ancora una volta un punto fondante della fede: «In noi può e deve esserci incessantemente lo spirito della preghiera, il quale consiste nel desiderare con tutto il cuore di essere graditi a Dio in ogni nostra azione». Si potrebbe cadere però nelle formule o nei linguaggi 8, ma non costituisce un dovere per nessuno. In generale, un mezzo può essere prescritto unicamente a colui che ne ha bisogno in vista di certi fini. È invece necessario che ciascuno di noi, mediante la progressiva purificazione ed elevazione della propria intenzione morale, si impegni a ravvivare entro sé in modo adeguato unicamente questo spirito della preghiera. Kant, ora, fa una morale sull’insegnamento religioso che è necessario che nei primi esercizi di preghiera insegnati ai bambini; ai quali si inculchi loro con molta cura quanto segue: «Le parole della preghiera non hanno in sé nessun valore, e ci servono soltanto come mezzo per l'immaginazione, affinché si ravvivi la nostra intenzione di condurre una vita gradita a Dio». Se non s’insiste su questo, tutti quegli omaggi devoti corrono il rischio di produrre soltanto una venerazione ipocrita di Dio, e nient'affatto un culto pratico, il quale non consiste di semplici sentimenti.
- Il frequentare la chiesa è inteso come il culto esterno solenne reso a Dio nella chiesa. In questo senso, esso non è soltanto un mezzo prezioso di edificazione 9 per i singoli uomini, ma è anche un dovere immediatamente obbligatorio per tutti, in quanto cittadini di uno Stato divino da rappresentare sulla terra. Esso è un mezzo prezioso a condizione che questa chiesa non contenga formalità cultuali inclini all'idolatria; infatti, la raffigurazione sensibile di Dio trasgredisce il divieto della ragione: «Non devi fartene nessuna immagine». È invece un'illusione pretendere che la frequentazione della chiesa sia in sé un mezzo della grazia, come se così servissimo direttamente Dio, e come se Dio avesse accordato grazie speciali alla celebrazione di queste solennità. Certo, a dire il vero, si tratta di un'illusione compatibile con la mentalità del buon cittadino di una comunità politica e con il decoro esteriore; essa, però, non solo non arreca nessun contributo a formare l'uomo come buon cittadino del regno di Dio, ma addirittura serve a mascherare con colori ingannevoli, davanti a se stessi e agli altri, lo scarso valore della propria intenzione morale.
- La consacrazione solenne alla comunità ecclesiale, celebrata una volta sola, è propriamente l'accoglimento di un nuovo membro nella chiesa mediante il Battesimo. Si tratta di una solennità molto importante, che comporta grandi obblighi per il consacrando, se è già in grado di professare da se stesso la propria fede, oppure per i suoi testimoni, che si assumono l'impegno di educarlo secondo la fede della chiesa. Nella chiesa cristiana greca si riteneva che il battesimo potesse cancellare di colpo tutti i peccati: questa è un’illusione che rivelava chiaramente l'affinità di questa chiesa con una superstizione, quasi più forte di quella pagana.
- La solennità in vista del rinnovamento, della continuità e della propagazione della comunità ecclesiale secondo leggi di uguaglianza la quale viene ripetuta nel tempo e può essere celebrata anche con la cerimonia di una partecipazione a godere tutti insieme alla medesima tavola, secondo l'esempio del fondatore di questa chiesa e anche in sua memoria. Questa solennità è un mezzo eccellente per ravvivare in una comunità di fedeli il sentimento etico dell'amore fraterno, sentimento di cui essa è appunto la raffigurazione. È invece un'illusione religiosa, predicare che Dio avrebbe annesso alla celebrazione di questa solennità delle grazie speciali, e trasformare in dogma di fede il principio secondo cui la comunione, che è semplicemente un atto ecclesiale, sarebbe anche un mezzo della grazia. In generale, dunque, il clericalismo sarebbe l'usurpazione, da parte del clero, del dominio sugli animi, ottenuto facendo loro credere di avere il possesso esclusivo dei mezzi della grazia.
* * *
L'uomo fra tutti gli attributi morali di Dio «santità, grazia e giustizia», si rivolge di solito immediatamente al secondo, per sottrarsi così alla dura condizione di doversi conformare ai requisiti della santità. È molto faticoso essere un buon servitore, perciò l'uomo preferirebbe essere un favorito, in tal caso molti errori gli sarebbero perdonati, e, qualora la mancanza verso il proprio dovere fosse troppo grave, ogni cosa tornerebbe ad aggiustarsi grazie alla mediazione di un altro uomo che gode di grande favore presso Dio.
Per garantire la parvenza dell'attuabilità l'uomo trasferisce a Dio il concetto che ha di se stesso, con tutti i difetti. L'uomo spera allora di ottenere con Dio un risultato di “somma misericordia”, rivolgendosi soltanto alla sua grazia.
Per raggiungere questa meta, l'uomo si industria a escogitare ogni tipo di formalità cultuali, con le quali deve esibire l'alto onore in cui tiene i comandi divini, per non essere costretto a osservarli, e, affinché i suoi desideri inoperosi possano riparare la trasgressione di tali comandi, egli lo invoca: “Signore! Signore!”, solo per non essere costretto «a fare la volontà del Padre che è nei cieli».
È così, dunque, che l'uomo si forma il concetto secondo cui le formalità cultuali sono in se stesse mezzi della grazia mentre esse sono in realtà soltanto dei mezzi utili a ravvivare sentimenti autenticamente pratici. L’uomo stesso affida alle mani della Provvidenza il compito di farlo diventare un uomo migliore, dedicandosi alla devozione, invece che alla virtù. Al contrario, solo l'unione della virtù e della devozione può costituire l'idea che viene indicata dall'espressione pietà religiosa (il vero sentimento religioso).
Non c’è da stupirsi se molti deplorano apertamente che la religione contribuisca ancora oggi pochissimo al miglioramento degli uomini, e che la luce interiore “sotto il Moggio” di questi eletti dalla grazia non voglia risplendere anche all'esterno per mezzo di opere buone; anzi, non deve stupire che questa loro luce non risplenda (come sarebbe invece legittimo esigere, date le loro pretese) più intensamente rispetto ad altri uomini dotati soltanto di onestà naturale, i quali, senza tante cerimonie, abbracciano sinceramente la religione non per sostituire, bensì per promuovere l'intenzione virtuosa che si concretizza in una buona condotta.
Il Maestro del Vangelo ci ha mostrato che queste prove esterne, offerte nell'esperienza esterna, sono proprio la pietra di paragone per conoscere gli altri e noi stessi dai loro e dai nostri frutti. Ma non si è ancora visto che quegli uomini, a loro parere straordinariamente favoriti dalla grazia divina, gli eletti abbiano superato in qualcosa l'uomo naturalmente onesto, del quale possiamo fidarci in tutti i vari rapporti quotidiani, negli affari e nei momenti di bisogno; si è visto piuttosto che quei presunti eletti, presi nel loro complesso, potrebbero difficilmente sostenere il paragone con un uomo del genere.
E questo dimostra che il giusto cammino non procede dalla concessione della grazia alla virtù, bensì dalla virtù alla concessione della grazia.
Note
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1 Quando Kant parla di illusione religiosa si riferisce all'errore di scambiare la semplice rappresentazione di una cosa con la cosa stessa.
2 Romani 3, 21-26: «Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha per lui prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù».
Romani 10, 1-4: «Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza. Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza; poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede».
3 Ebrei 13, 15: «Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome».
4 È un fenomeno psicologico comune quello per cui i seguaci di una confessione legata a un minor numero di articoli statutari di fede si sentono più illuminati. La causa di questo fenomeno risiede nel fatto che questi «illuminati» sono, seppur di poco, più vicini alla religione morale pura, anche se non si sono ancora liberati del tutto dall'illusione di voler completare questa religione con pratiche pie nelle quali la ragione è solo un po' meno passiva.
5 Il termine Pfaffentum, “clericalismo” designa semplicemente l’autorità di un padre spirituale (papa), e ha assunto un significato negativo per via del concetto subordinato di dispotismo spirituale. Non vorrei perciò essere frainteso, come se io proponessi un confronto fra le varie sette al fine di svalutare tutte quante nelle loro usanze e nei loro ordinamenti.
6 Le diverse forme di fede conferiscono gradualmente ai popoli un carattere che li distingue.
L'Ebraismo si attirò l'accusa di misantropia.
L'Islamismo si contraddistingue per la sua fierezza, e perché le sue stesse pratiche devote sono improntate sul coraggio. Per quanto riguarda il carattere distintivo della terza classe di credenti, fondato su un fraintendimento dell'umiltà, va osservato innanzitutto quanto segue: Il riconoscimento della santità della legge, che abbassa certamente la presunzione dell'uomo nel giudizio sul proprio valore morale, non deve però condurre al disprezzo di se stessi, bensì alla ferma decisione di avvicinarsi sempre più alla santità conformemente alle nobili disposizioni che si trovano in noi. Ora, questa classe di credenti ritiene invece che tale virtù (l'umiltà [Demut] che è vero e proprio coraggio [Mut] sia qualcosa di pagano, come se già il suo nome tradisse la superbia, e al suo posto esaltano piuttosto la strisciante e subdola ricerca dei favori divini. La pseudo devozione (bigotterie, devotio spuria), infine, è l'abitudine di praticare la devozione non con azioni gradite a Dio (con l'adempimento tutti i doveri umani), bensì con attestati di riverenza rivolti direttamente a Lui. È una pratica che rientra nella cerchia dei culto servile (opus operatum), ma che alla superstizione congiunge inoltre il fanatismo illusorio di avere presunti sentimenti soprasensibili (celesti).
La fede indù infonde nei suoi seguaci il carattere della pusillanimità.
7 Quello stesso uomo che spinge la sua audacia fino a dire: «È dannato colui che rifiuta questa o quella dottrina storica come verità certa e preziosa», dovrebbe tuttavia avere anche il coraggio di dire: «Sia dannato io stesso, se ciò che vi racconto non è vero!».
Se esistesse un uomo capace di pronunciare un'espressione così spaventosa, vi consiglierei allora di comportarvi nei suoi confronti come stabilisce il proverbio persiano diretto contro gli hadgi. Se un uomo è andato una volta (come pellegrino) alla Mecca, lascia la casa in cui egli dimora con te; se vi è andato due volte, lascia la strada in cui abita; ma se vi è andato tre volte, allora abbandona la sua città o addirittura il paese in cui vive.
8 Nel desiderio in cui è insito lo spirito della preghiera, l'uomo cerca soltanto di agire su se stesso (per vivificare i propri sentimenti mediante l'idea di Dio). Nel desiderio che esprime a parole, cioè esteriormente, egli cerca invece di agire su Dio.
Nel primo senso, una preghiera può essere fatta con piena sincerità.
Nella seconda forma di preghiera, in quanto discorso fatto a Dio, l'uomo ammette la presenza personale di questo oggetto supremo, o almeno assume l’atteggiamento interiore di chi è persuaso di tale Presenza, considerando che, pure le cose non stessero così, non gliene verrà comunque imputato nessun danno, e che piuttosto otterrà il favore di Dio. In questo tipo di preghiera (alla lettera), non può esserci la perfetta sincerità che si ha nel primo tipo.
Si pensi a un uomo devoto e ben pensante, ma per il resto limitato quanto alla comprensione di tali concetti religiosi purificati, e si immagini che venga sorpreso da un altro mentre prega, non necessariamente ad alta voce, ma anche soltanto col semplice movimento delle labbra. Ebbene, non vi aspettereste di vederlo in preda alla confusione o all'imbarazzo tipico di chi è stato sorpreso in flagrante. Ma perché questo? Perché un uomo sorpreso a parlare a voce alta con se stesso fa nascere subito il sospetto di essere in preda a un piccolo attacco di follia; ed è appunto così che lo si giudica qualora lo si colga, mentre è solo, nell'atteggiamento di colui che ha qualcuno davanti a sé. La preghiera che ci ha donato il Maestro contiene unicamente il proposito di una buona condotta, la quale, congiunto alla consapevolezza della fragilità umana, implica il desiderio costante di essere un degno membro del regno di Dio. Questa preghiera esprime un desiderio che produce da se stesso il proprio oggetto (cioè, di diventare uomini graditi a Dio).
Una preghiera di questo tipo, dettata dall'intenzione morale (animata semplicemente dall'idea di Dio), può essere fatta veramente con fede perché essa produce da sé in quanto spirito morale della preghiera stessa, il proprio oggetto (l'essere graditi a Dio): e ciò significa che soltanto essa può ritenersi sicura di essere esaudita, la qual cosa è dovuta a nient'altro che alla moralità che è in noi. Infatti, se la richiesta si limitasse anche soltanto al pane per il giorno attuale, nessuno può ritenere con sicurezza che essa verrebbe esaudita, non è affatto sicuro, cioè, che la saggezza di Dio comporti la necessità di esaudirla; forse, chissà, potrebbe essere nei piani di tale saggezza lasciarci piuttosto morire di fame.
Noi dunque non possiamo mai essere certi che una nostra preghiera sia esaudibile se non è morale. Bisogna spiegare cosa si intende per fede che fa miracoli (la quale dovrebbe sempre accompagnarsi a una preghiera interiore). Poiché Dio non può concedere all'uomo nessuna forza che lo faccia agire in modo soprannaturale (in quanto ciò è contraddittorio): di conseguenza il dono dei miracoli, inteso come dono che dipenda dall'uomo avere o no “Se avreste fede quanto un granellino di senapa”, è impensabile, preso alla lettera. Se la fede che fa miracoli deve avere un senso, dunque, essa non esprime altro che questa semplice idea: la costituzione morale dell'uomo, qualora egli la possedesse in tutta la perfezione che la fa gradita a Dio, sarebbe più importante di tutte le altre cause efficienti che Dio potrebbe implicare nella sua suprema saggezza. Sul fondamento di questa fede, perciò, possiamo avere fiducia che se noi fossimo, o diventassimo un giorno, totalmente ciò che dobbiamo essere e potremmo essere, la natura sarebbe costretta a obbedire ai nostri desideri, i quali però allora sarebbero sempre saggi.
Infine, per quanto riguarda l'edificazione che si ha di mira con la frequentazione della chiesa, si può dire che la preghiera pubblica, pur non essendo neanche essa un mezzo della grazia, è tuttavia una cerimonia etica, e lo è sia per l'intonazione corale dell'inno di fede, sia per le orazioni che la bocca del sacerdote rivolge solennemente a Dio a nome di tutta la comunità e che abbracciano tutti gli interessi morali degli uomini. Con questa cerimonia etica, i desideri del singolo credente devono unirsi con i desideri di tutti in vista di un unico fine (l'avvento del regno di Dio). Con la preghiera pubblica, infatti, si ha di mira lo scopo speciale di rafforzare al massimo i moventi morali di ogni singolo credente.
9 Se si vuol dare un senso adeguato a questa parola, allora l'edificazione dev'essere intesa soltanto come la conseguenza morale della devozione sul soggetto. La parola edificazione deve significare l'effetto prodotto dalla devozione sul miglioramento reale dell'uomo. Questo miglioramento, però, può essere conseguito soltanto mettendosi sistematicamente all'opera, radicando profondamente nel cuore dei saldi principi ben compresi nelle loro basi concettuali, innestandovi quindi dei sentimenti morali adeguati ciascuno al diverso valore del dovere corrispondente, difendendo e rafforzando questi sentimenti contro gli assalti delle nostre inclinazioni, ed edificando un uomo nuovo come un tempio di Dio. È evidente che questo edificio può essere costruito solo lentamente. Tuttavia, è necessario poter riscontrare che almeno qualche lavoro è già stato eseguito. Se perciò ci sono uomini che si credono molto edificati (da una predica, da una lettura o da un cantico), mentre in realtà non hanno costruito nulla, anzi non hanno neppure messo mano all'opera, ciò accade verosimilmente perché essi sperano che questo edificio morale si erigerà da solo, come le mura di Tebe, in virtù dei loro sospiri musicali e dei loro desideri ardenti.